L'artista si trova nella stessa posizione del pensatore rivoluzionario, che si oppone all'opinione dei contemporanei e annuncia una nuova verità. (Konrad Fiedler )

venerdì 18 maggio 2012

Storie di Lampedusa

Guardo il display del cellulare e mi accorgo di essere in anticipo, mi avvio alla fermata del tram, attendo oltre 15 minuti prima dell’arrivo del 105 stracolmo di persone come sempre.
Arrivo a Piazza Vittorio dopo le 20. Asiatici, cinesi e slavi popolano la piazza. Alcuni bevono birra altri tornano a casa con le buste della spesa.
Mi dirigo in via Conte Verde cercando il “Piccolo Apollo”.
Entro nella struttura che intuisco essere una scuola a destra un breve corridoio e delle scale mi conducono in un ambiente piccolo dove alcuni volontari gestiscono l’afflusso in sala.

Il luogo è piccolo e accogliente. Un aperitivo accoglie gli spettatori all’ingresso.
Mi metto in ultima fila e aspetto l’inizio delle proiezioni. Passano i minuti e la sala si riempie rapidamente. I posti a sedere si esauriscono ed alcuni devono sistemarsi sugli scalini.
Gianluca, uno dei responsabili di AMM (archivio delle memorie migranti) presenta la serata “il cinema per Lampedusa” anteprima del Lampedusa in festival che si terrà dal 19 al 23 luglio.
Prima della proiezione dei due cortometraggi in programma: “Chiamatemi Ismail” e “Soltanto il mare” viene allestito con Lampedusa un collegamento telefonico  con uno degli organizzatori del festival. Segue una breve presentazione del primo cortometraggio ad opera del regista: Paolo Briguglia.
Il film narra la storia d’amore tra Ismail e Maria. Senegalese lui, palermitana lei. I due vivono una bruciante storia d’amore che culmina con il concepimento di un figlio. Il padre di Maria si intromette nella storia, picchiando e minacciando Ismail.
I due ragazzi si lasciano e lui torna alla vita di sempre. Alla madre in Senegal continua a spedire foto in cui si mostra in una realtà fittizia, una bella auto, una bella casa e una famiglia. Un modo ingenuo per rassicurare la madre rassicurando se stesso, ponendo quelle immagini come punto di arrivo, come traguardo.  Una finzione in cui proietta sogni di integrazione e riscatto sociale.
Il film dura 15 minuti circa ed è stato girato in quattro giorni e mezzo.

Le luci si riaccendono per ospitare un breve intervento di un responsabile nazionale dell’Arci che espone le attività dell’associazione.
Poi prendono la parola i registi della seconda pellicola: Dagmawi Yimer, Giulio Cederna e Fabrizio Barraco.
Dag era uno dei migranti sbarcati a Lampedusa nel 2006 che ha deciso a distanza di sei anni di tornare per girare un documentario.
Come ha raccontato durante la presentazione del film, tre sono le cose che lo differenziano dal 2006:
Avere la telecamera in mano.
Aver imparato la lingua Italiana.
Avere un foglio di carta che gli consente di girare libero.
Dag mostra un volto dell’isola sconosciuto, gli isolani da sempre “ultimi” diventati “penultimi” dopo gli sbarchi.
Attraverso le tante testimonianze raccolte tra i residenti si comprende come fosse fuorviante l’immagine riprodotta dai media di un’isola felice rovinata e sporcata dai profughi.
Gli isolani si presentano davanti la telecamera di Dag raccontando i loro problemi, ad esempio di quanto costa far nascere un bambino per l’assenza di strutture adeguate nell’isola, un importo quantificato in diecimila euro.
La spontaneità è l’arma segreta di questo film documentario, aspetto che il pubblico in sala ha più volte apprezzato durante e dopo la proiezione.
Dag nel 2006 era uno dei tanti senza volto che abbiamo visto transitare a Lampedusa, molti di loro li abbiamo dimenticati nei centri di accoglienza altri negli aerei mentre venivano espulsi o in fondo al mare dopo i naufragi.
 Dag ora ha una volto, una telecamera e una storia da raccontare.

giovedì 26 aprile 2012

Marcia Radicale a Roma


“sotto il sole non siamo pochi”, parola di Marco Pannella.
I radicali non forniscono i numeri della giornata, poiché la marcia non era né una prova di forza né un esibizione muscolare.
I mezzi a disposizione non sono quelli dei grandi partiti di massa o dei grandi sindacati nazionali, il palco è ricavato dal piano di un camion scoperto utilizzato anche da un gruppo di musicisti jaz, chiamati a far da colonna sonora alla giornata.
I cartelli, gli striscioni e le bandiere sono per la maggior parte realizzate in modo artigianale.
Il corteo è in pieno stile radicale. Festoso e variopinto. Pannella dal palco lo descriverà come “molto colorato” promettendo che in futuro lo sarà ancor di più. Del resto i radicali sono un partito transnazionale con un sogno europeista mai sopito.
La marcia scorre veloce in una Roma quasi addormentata e insolitamente silenziosa, grazie anche alla chiusura al traffico di Corso Vittorio Emanuele.
Da Regina Coeli fino a Corso Risorgimento, dove Pannella improvvisa un breve discorso a braccio. Un aperitivo agli interventi previsti a partire dalle 12.30 a Piazza San Silvestro.
Colorati e variopinti come detto, ma non solo nell’aspetto, anche nelle idee, forse soltanto in un corteo radicale si possono trovare cosi tante sensibilità diverse sfilare insieme senza tensione. Solo qui, forse, un giornalista sicuramente non radicale come Luigi Paragone (legato a comunione e liberazione) può essere accolto, ascoltato e applaudito.
Solo qui, forse, si possono ascoltare Alfonso Papa e Sergio D’Elia.
Tanti gli interventi che hanno lasciato un segno, tante le parole che hanno solcato la coscienza provocando una piccola cicatrice.
La sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, che ha voluto ricordare la storia di suo fratello che attende ancora giustizia.
Le parole straziate di Cira Franchi, mamma di Daniele morto in circostanze dubbie nel carcere francese di Grasse. “Mi hanno restituito una carcassa” è il grido sputato nel microfono per ricordare ai presenti come il cadavere del figlio le sia stato riconsegnato, dalle autorità francesi, privo di organi interni.
Dolore raccolto da Enrico Sbriglia, direttore del carcere di Trieste, che a queste donne chiede “perdono”.
Il popolo radicale ai piedi del palco improvvisato ascolta e discute, applaude e dibatte, capannelli di persone sono sparsi ovunque, sembra un laboratorio politico a cielo aperto e forse è esattamente questo.
Intanto sul palco gli interventi si susseguono.
Kalsang Dolker, presidente della comunità tibetana in Italia, grida il sogno di un Tibet finalmente libero.
Emozione tra i partecipanti per l’intervento in diretta audio dal Mali, del presidente del PRT Demba Traorè, tradotto a braccio da un dirigente radicale.

Di questa marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà non troverete molto notizie in rete, nonostante la formale adesione di sindacati e associazioni importanti quali, ad esempio, la Cigl.
Sicuramente non è stata un adunata oceanica, ma la bontà delle idee non potrà mai essere misurata e per questo giudicata in base ad un asettico conteggio matematico.
Emma Bonino, storica leader del movimento, ha ricordato con forza la necessità di un amnistia legale e trasparente in sostituzione a quella clandestina, opaca e di classe che si concretizza con le oltre 400 mila prescrizioni l’anno.
Dietro  di esse c’è un reato rimasto impunito e una vittima senza giustizia.
La proposta è articolata e non si esaurisce con l’amnistia, ma come per altre battaglie radicali ricordate sul palco dai massimi dirigenti del movimento, c’è la necessità di condensare un problema complesso partendo da una singola battaglia facilmente comprensibile da tutti.

La discussione è aperta. Almeno cosi dovrebbe essere in un paese normale.

 © Marco Gunnella