L'artista si trova nella stessa posizione del pensatore rivoluzionario, che si oppone all'opinione dei contemporanei e annuncia una nuova verità. (Konrad Fiedler )

venerdì 9 agosto 2013

Era il 9 agosto del 378 d.C. Il giorno che cambiò la storia.


Per raccontare questa storia è necessario fare più di un passo indietro.
Nel 374-375 d.C. la popolazione dei Goti fu spinta violentemente verso occidente dagli Unni, che in quegli anni razziavano e depredavano a più riprese le terre dei Goti, nonostante una strenua, quanto inutile, resistenza.
I Goti arrivarono fin sulla sponda del Danubio, il fiume che segnava il confine dell’Impero Romano d’Oriente e chiesero di poter entrare come alleati.
I comandanti Romani, spaventati dal numero di persone che si ammassavano sulla riva, decisero di mandare degli emissari all’Imperatore Flavio Valente, in quel momento a duemila chilometri di distanza, impegnato ad ammassare legioni e mercenari per muovere guerra contro l’Impero Persiano.
Valente fu ben felice di accogliere i Goti, pensò che fossero arrivati proprio al momento giusto, sarebbero stati degli ottimi rinforzi per la guerra imminente.
I Goti entrarono nell’Impero. L’ordine era chiaro. Accoglierli, nutrirli, disarmarli e avviarli nelle ricche terre della Tracia dove avrebbero avuto terra da coltivare, il tutto in cambio di soldati per l’Impero.
Le cose presero da subito una direzione sbagliata. I comandanti in loco si rivelarono corrotti e cominciarono a sfruttare la situazione. Le razioni di cibo, che l’impero mandava a titolo gratuito, erano invece rivendute ai Goti che in breve tempo furono ridotti alla fame e alla disperazione.
Uno dei principali responsabili della situazione era Lupicino, il responsabile militare Romano in Tracia, che dopo aver depredato i Goti sulla riva romana del Danubio, decise il loro spostamento verso l’interno.
Giunsero in breve a Marcianopoli, una città con possenti mura che illuse sia il popolo Goto che i soldati Romani di scorta, di essere finalmente arrivati. La città vietò l’ingresso a tutti, fatta eccezione per Lupicino stesso e i principali comandati Goti, tra cui Fritigerno.
La marcia era stata lunga, i Goti erano ormai allo stremo, i soldati Romani, dal canto loro, erano dei limitani (truppe di guardia al confine) ed erano nervosi, cosi lontani dalle loro caserme ed in grande inferiorità numerica rispetto ai Goti.
Gli animi s’incendiarono e ben presto i soldati Romani di scorta furono uccisi e spogliati di armi e armature. Intanto Lupicino e gli altri stavano banchettando a palazzo, il piano era semplice, far ubriacare i comandati Goti per poi ucciderli, sennonché furono i Romani ad ubriacarsi per primi e quando cominciarono gli scontri, Fritigerno e gli altri fuggirono e si unirono alle truppe iniziando la rivolta.
Lupicino era un funzionario e come tale ebbe timore di informare l’imperatore di quanto accaduto, cosi radunò tutti i legionari e mercenari abbastanza vicino da poterlo raggiungere e si schierò in battaglia alle porte di Marcianopoli.
La battaglia fu una catastrofe per l’esercito Imperiale, che fu travolto e annientato dai Goti, la vittoria diede morale ai Goti che per anni rimasero padroni incontrastati della Tracia, della ricca Tracia. Nel frattempo il confine non era più presidiato, i limitani di Lupicino erano ormai morti da mesi alle porte di Marcianopoli cosi Goti, Alani e persino Unni attraversarono il fiume unendosi a Fritigerno nei saccheggi, fonti storiche suggeriscono che all’apice delle razzie i Goti avessero al seguito cinquemila carri pieni di bottino!
L’imperatore era lontano, continuava ad ammassare truppe al confine per l’attacco alla Persia e proprio non voleva rinunciare alla campagna militare, cosi chiamò  Traiano e Profoturo, due dei suoi generali e li spedì in Tracia con il compito tassativo di eliminare una volta per tutte Fritigerno.
I due generali di Valente a capo di tre legioni si unirono a Ricomere e alla sua legione occidentale mandata da Graziano in aiuto dello zio.
I tre generali Romani erano certi della vittoria, per alcuni giorni si limitarono a seguire la colonna dei Goti in movimento aspettando il momento buono per sferrare l’attacco. Il momento sembrò giunto quando i Goti disposero i carri a cerchio per riposare.
L’intenzione dei generali romani era quella di attendere che la colonna si muovesse e di attaccare la retroguardia.
Il piano andò in malora perché nelle legioni romane il tasso di diserzione era alto e molti “legionari” erano “barbari” tra cui molti Goti di cui l’impero si serviva abbondantemente per loro capacità e forza in combattimento.
Fritigerno fu quindi informato dei piani di Traiano e gli affrontò sul posto.
Lo storico romano a cui dobbiamo la conoscenza degli avvenimenti raccontati è Ammiano Marcellino.
Romani e Goti si fronteggiarono per un’intera giornata, i morti furono moltissimi da ambo le parti, al calar della notte le ostilità furono interrotte (come d’usanza ai tempi).
I generali romani furono talmente provati dalla battaglia che non se la sentirono di continuare il giorno dopo e cosi andarono via.
Ricomere verso occidente, Traino e Proturo verso sud dove furono raggiunti da un altro generale mandato da Valente: Saturnino e dalle sue truppe. La strategia romana cambiò, temendo un altro scontro frontale come quello dei Salici, appena combattuto, sbarrarono la strada ai Goti sulle montagne contando di poter difendere agevolmente i passi e costringere i Goti nella zona meno ricca della Tracia per tutto l’inverno portandoli di fatto alla fame o alla fuga.
Saturnino riuscì per molto tempo a respingere i Goti in questo modo, ma si dimenticò che ad est il confine sul Danubio era ancora aperto, nessuno era stato mandato a sostituire i limitani morti a Marcianopoli.
Cosi Goti, Alani e persino Unni attraversarono il Danubio, Saturnino rischiava di essere preso alle spalle e cosi frammentò le sue legioni e le spedì nelle città del sud per trascorrere l’inverno. Ovviamente i Goti non persero un solo giorno e con i valichi deserti piombarono nuovamente verso sud.
Valente era sempre lontano. Non voleva rassegnarsi all’inevitabile e cosi mandò un quarto generale contro i Goti, Sebastiano. Il nuovo generale chiese poco, appena duemila legionari di sua scelta, l’idea era quella di attuare una contro guerriglia. Sebastiano per mesi intercettò singole colonne di Goti, tese imboscate notturne e non fece prigionieri, ma non bastò. I goti erano tremendamente vicini a Costantinopoli. La capitale di Valente.
L’imperatore, forse consigliato dai suoi uomini di fiducia, siglò un trattato di pace con la Persia e si mosse con tutte le legioni disponibili verso Costantinopoli. L’accoglienza fu ostile, l’imperatore era mal visto e venne fischiato e contestato.
Valente ruppe gli indugi e alla testa di almeno 50 mila uomini marciò verso la Tracia, verso i Goti, verso Fritigerno e verso Adrianopoli.
Possiamo immaginare il suo stato d’animo.
Frustato per il trattato con la Persia, per i fischi ricevuti nella capitale e per l’inettitudine di ben 5 dei suoi generali, marciò alla testa di quello che pensava essere un esercito invincibile, verso un nemico che odiava con tutto se stesso. Cosi accecato e arrogante che non aspettò nemmeno il nipote Graziano (imperatore d’Occidente che alla testa delle sue legioni stava muovendo a tappe forzate per aiutare lo zio).
Era l’imperatore Valente e non avrebbe permesso al suo ambizioso nipote di prendersi onore e gloria, no, i Goti li avrebbe spazzati via lui stesso e sarebbe tornato a Costantinopoli carico di gloria e onore.

Ed eccoci arrivati al 9 agosto di quel lontano 378 d.C.
Adrianopoli è vicina, Valente schiera le truppe in battaglia. È caldo, i legionari sono assetati e nervosi, i Goti danno fuoco a delle sterpaglie cosi da mandare fumo tra le fila romane.
Fritigerno ha schierato le sue truppe davanti al cerchio di carri.
Arrivati a questo punto è doverosa una precisazione.
Valente è un cristiano ariano, vale a dire convinto che Dio, Gesù e lo Spirto Santo siano tre entità differenti.
Dal punto di vista religioso è intollerante ed anche per questo scarsamente amato dal popolo tra cui era diffusa l’altra forma di cristianesimo, quella legata alla Chiesa di Roma.
Ironia della sorte anche Fritigerno è un cristiano ariano e così tra i due eserciti schierati cominciarono a fare la spola delle ambascerie, sostanzialmente nessuno aveva interesse allo scontro, Fritigerno propone di mettere una pietra sopra al passato e di tornare sostanzialmente al vecchio accordo di due anni prima. Per cui lui e i suoi Goti avrebbero combattuto per l’impero in cambio della Tracia.
La trattativa sembrò ormai a buon punto  e nessuno credeva più alla battaglia.
Quando ormai l’accordo era imminente, un reparto di cavalleria Romana di arcieri arrivò cosi vicino alla fanteria Gota che non riuscì a frenare l’istinto e attaccò provocando molte perdite, la reazione della cavalleria Gota fu immediata, il reparto Romano venne accerchiato e distrutto.
La diplomazia aveva fallito. La battaglia di Adrianopoli era cominciata.
La cavalleria Romana partì all’attacco senza l’appoggio della fanteria, si trovò troppo avanti e isolata facile preda per i Goti che infatti colpirono durissimo, la cavalleria in rotta andò a cozzare contro la propria fanteria.
La confusione era massima, non si hanno notizie di ordini di Valente per tutta la durata della battaglia.
I legionari spronarono la cavalleria e tornarono a spingere i Goti verso il loro cerchio di carri. L’ala sinistra dello schieramento giunse al bordo esterno, ma una volta lì si accorse con orrore di non essere stata seguita dal resto della truppa e furono massacrati insieme al resto della cavalleria.
La battaglia era ormai decisa.
La cavalleria romana era stata annientata, e le legioni, accerchiate, perdevano lentamente posizione, ammassandosi verso il centro. La lotta fu durissima, accerchiati da un numero di nemici superiori vennero alla fine annientati e lo stesso imperatore ucciso sul campo di battaglia insieme a gran parte dei suoi generali tra cui Traiano e Sebastiano.
Due terzi dell’esercito imperiale venne distrutto sul posto, il resto costretto alla fuga e giustiziato a piccoli gruppi.
I Goti vincitori si spinsero fino alle porte di Costantipoli, poi decisero che era più vantaggioso per loro razziare le campagne piuttosto che assediare grandi città.

L’impero Romano d’oriente aveva subito la più colossale delle sconfitte e la sua stessa esistenza era ridotta ad un filo. Graziano nominò Teodosio come Imperatore d’Oriente.
La sconfitta di Adrianopoli segna di fatto l’inizio della fine dell’impero Romano d’Occidente, può sembrare una contraddizione visto che il luogo della battaglia, l’imperatore e legioni erano Orientali, ma fu proprio per questo, fu proprio per le scelte compiute da Teodosio prima e dai suoi successori dopo che i Goti e le altre popolazioni “barbare” ormai invincibili sul campo di battaglia erano sospinte verso occidente, senZa contare che da quel momento in poi, soprattutto ad oriente, l’esercito divenne composto principalmente da mercenari barbari.
Trent’anni dopo Adrianopoli (410 d.C.) Alarico Re dei Visigoti e generale Romano a capo dei suoi uomini razzio Roma.

giovedì 25 aprile 2013

Alessandro



Alessandro tornava a casa pedalando felice.
La scuola era quasi finita e la gioia montava in lui come un fiume in piena. Era euforico e pregustava il sapore delle vacanze alle porte.
Percorreva a forte velocità la discesa verso casa e per un attimo un’ombra offuscò la sua mente.
Due giorni prima aveva scritto una lettera d’amore a Valentina, per motivi futili e superficiali e non né andava fiero, era pentito poiché l’unica persona che amava era Cinzia; la sua compagna di banco.
Il pensiero di Cinzia gli arrossò il volto in un istante e con rinnovata energia pedalò veloce verso il locale di Stefano per il pranzo. L’ambiente era piccolo, male arredato, caotico e poco pulito, ma era l’unico aperto.
Il misto di odori provenienti dalla cucina e il chiasso dei suoi coetanei erano per Alessandro una miscela sgradevole. Affrettò il passo e andò a sedersi ad uno dei tavoli vicino alle finestre, una zona arieggiata dove gli odori arrivavano smorzati.
Gli portarono il vassoio con la sua ordinazione, Alessandro mangiò avidamente.
Negli ultimi tempi si fermava poco nel locale e non si intratteneva con i suoi coetanei poiché in passato si era malmenato con alcuni di loro. I suoi genitori l’avevano punito per questo e così per evitare guai si fermava soltanto il tempo necessario per il pasto.
Lasciò i soldi sul tavolo e con la bicicletta andò verso la tabaccheria all’angolo. Giocò la schedina come ogni settimana, scambiò quattro chiacchiere banali con Alessia, la commessa, e uscì rinfrancato dal suo sorriso di saluto.
Montò in sella e guardò l’orologio. Era in leggero ritardo per l’appuntamento con Federico, suo compagno di calcetto da diversi anni.
L’amico lo aspettava seduto su una panchina logora e malandata, si salutarono con un abbraccio. Alessandro consegnò i dvd, prese i soldi convenuti e li sistemò distrattamente nella tasca dei jeans, mentre si salutavano con una pacca sulle spalle.

Alessandro si sedette sulla stessa panchina. Prese il cellulare, chiamò alcuni compagni di classe per organizzare una serata in pizzeria. Si voleva divertire con i soldi appena guadagnati.
Si sistemò un po’ più comodo per assaporare la brezza leggera che alleviava l’afa della mattina appena trascorsa, ma quel benessere non durò a lungo. Cominciò a sentirsi inquieto e in preda ad una dolorosa sensazione di freddo diffuso.
Non stava sognando, eppure le cose intorno a lui cambiavano lentamente. Il leggero cinguettio degli uccelli era cessato gradualmente mentre la luce sembrava aver perso forza e intensità così da creare ombre poco rassicuranti sul terreno.
Udiva in lontananza la sirena di un traghetto che duettava in modo bizzarro con il pianto di un bambino.
Scattò in piedi come avesse ricevuto una scossa elettrica e con la mano afferrò al volo la cinta dello zaino per trascinarlo via con sé. Sentiva dei brividi scuoterlo nel profondo come ad avvertirlo di un pericolo imminente.
Il passo svelto si tramutò in corsa scomposta che lo portò ad inciampare goffamente. Sentiva dolore alle mani, erano graffiate in più punti a causa del terreno sterrato. Prima ancora di rialzarsi si rallegrò di non aver rovinato il display del cellulare nuovo di zecca e trascinandosi carponi si alzò per continuare la fuga arrivando fino al marciapiede di fianco la strada.
Il rumore del traffico scoppiò improvviso intorno a lui e si ritrovò immerso in quella che considerava una rassicurante normalità. Non si curò della polvere che lo ricopriva né dei graffi sparsi su mani e braccia. Ridendo di se stesso e delle sue inquietudini si avviò verso casa.

L’uomo anziano era accanto alla fontanella. Era pallido, stanco e scavato in viso.
Teneva la mano rugosa appoggiata al muretto che delimitava la fontanella utilizzandolo come sostegno.
Non aveva molto tempo a disposizione poiché molte erano le cose che doveva dire. Una seconda possibilità non era contemplata né per lui né per Alessandro. Non poteva fallire.
Gridò il nome del ragazzo con una tale forza e intensità che Alessandro si girò di scatto come investito da un’onda d’urto.
L’uomo anziano andò verso la panchina e con un gesto della mano invitò il ragazzo a seguirlo.

Alessandro era incuriosito da questo anziano cosi bizzarro.
Il suo abbigliamento era fuori posto, troppo pesante per quella stagione così calda, ed anche quel berretto triangolare che indossava era di un colore troppo stravagante per un uomo della sua età. D’impulso lo seguì sedendosi al suo fianco con aria interrogativa.
L’uomo anziano consegnò ad Alessandro un foglietto ripiegato e si raccomandò di leggerlo solo l’indomani in quello stesso luogo.
Alessandro ripose il foglietto in tasca e approfittò di quella vicinanza per osservarlo meglio. Gli occhi erano di colore verde-castano e la fronte cosparsa da rughe marcate e profonde.
Una leggera barba bianca gli copriva il mento e parte delle guance lasciando scorgere alcuni nèi vicino alle labbra. Sembrava provato. Affaticato.
Per l’uomo anziano il tempo era l’unico nemico tangibile.
Non aveva preparato un discorso, non ce n’era stato modo, improvvisò lasciando che fosse il cuore e non la mente a trovare le parole.
Prese un sigaro dal taschino e con mano malferma lo accese assaporando il gusto del tabacco con profondi respiri, poi prese le mani di Alessandro nelle sue con una tale forza da lasciare il ragazzo sbalordito e turbato dalla pienezza del contatto.

 “Caro Alessandro, ci conosciamo da tanto tempo.” Cominciò l’uomo anziano.
“ Ho vissuto a lungo e sono più avanti di te in questa linea temporale e per questo sono a conoscenza di cose che ignori”.
Riprese fiato e portò il sigaro alla bocca con mano tremante.
“Ho vissuto la mia vita da solo senza la gioia e la pienezza dell’amore”.
Nel pronunciare queste parole calde lacrime gli rigarono il viso segnato dagli anni.
“A volte caro Alessandro la vita viene decisa da un istante, da un secondo, da una frase sussurrata tra i banchi di scuola e dipende dalla prontezza della nostra anima e dal coraggio del nostro cuore riconoscere quell’istante”
Alessandro avvertì la stretta dell’uomo farsi più forte, come alla ricerca di uno scoglio a cui aggrapparsi.
“Io ho fallito per inerzia, codardia e viltà. Non ho saputo riconoscere l’istante che avrebbe reso piena e felice la mia vita ed ora sono qui per rimediare a quell’errore”.  
Alessandro ascoltava con attenzione le parole dell’uomo anziano, ma era anche sbalordito dall’ambiente circostante. Udì nuovamente in lontananza il pianto del bambino e la sirena della nave mentre il sole sembrava avvolto da una membrana spenta.
“Ho vagato cieco in un modo di oscurità e sordo in un mondo di silenzio ed ho conosciuto i tentacoli freddi della malinconia e della solitudine in lunghe notti insonni. Li ho sentiti stringere fino a soffocare ed ho pregato mille volte di soccombere ad essi”.
Mentre lo ascoltava Alessandro era sommerso da mille dubbi e timori. Sentiva la stretta dell’uomo senza vedere le mani e né percepiva le lacrime pur avendo davanti a sé un viso ormai opaco e trasparente. Solo gli occhi erano ancora vivi, fiammeggianti e intensi e su quelli concentrò l’attenzione.
“Oggi sono qui per te, per squarciare la nebbia del tempo e mostrati cosa nasconde così da donarti la cosa più preziosa al mondo; L’amore”.
Alessandro lo ascoltava con attenzione crescente alla ricerca di una risposta.
“Nn ci sarà un'altra occasione ed è per questo che devi ascoltarmi con attenzione. Domani mattina ci sarà una persona che abbassando lo sguardo ti dirà: – io ti avrei detto si – “
L’uomo cominciò a vacillare, teneva gli occhi piantati in quelli del ragazzo, nonostante la sua corporeità stesse collassando. Il tempo a sua disposizione era finito.
“Alessandro” la voce dell’uomo era vigorosa e profonda “ quella persona è l’altra metà di te, rappresenta la tua felicità e il tuo destino.
Non devi fare il mio errore, non devi sottrarti per inerzia o paura, devi aggredire la vita e guadagnarti il futuro”.
Alessandro udiva la voce sempre più debole. Gli oggetti intorno fluttuavano in una specie di campo gravitazionale sospeso. Nemmeno i colori e i suoni erano normali ma miscelati tra loro in modo suggestivo. Sentiva anche l’odore pungente del mare.
Poi, lentamente, le cose tornarono alla normalità, ed Alessandro si ritrovò seduto su una malandata panchina di legno ad osservare il niente.


Alessandro montò in sella alla bici e con estrema rapidità si allontanò dal parco Una volta a casa salutò sua madre e sua nonna con un gesto distratto della mano. In camera si sdraiò sul letto cercando protezione e sicurezza. Provò a distrarsi ascoltando la radio, ma il suo corpo chiedeva azione.
Scese di scatto dal letto, afferrò i bilancieri e cominciò ad allenarsi con impeto. Si allenò per ore e si fermò solo quando i muscoli smisero di contrarsi a causa dello sforzo eccessivo. Cercò un blocco da disegno e cominciò ad abbozzare il viso dell’uomo anziano.
Alessandro nel disegno era una frana, ma si applicò con impegno e determinazione così da produrre un risultato ai suoi occhi quasi discreto.
Arrivata l’ora di cena, si sistemò a tavola, consumò il pasto cospargendo tutto di ketchup ed inghiottì frettolosamente. Finto di mangiare fece una doccia calda per rilassare i muscoli indolenziti.
Mentre si rivestiva sentì sua madre bussare delicatamente alla porta.
“Alessandro il tuo disegno è davvero pregevole e sai una cosa? Questa persona ti somiglia molto, gli occhi mi ricordano i tuoi”.
Alessandro si vestì senza rispondere. Non si era reso conto della somiglianza con l’uomo finché sua madre non l’aveva notata.
Si addormentò con in testa il pianto del bambino, la sirena e gli strani avvenimenti osservati nel parco e la voce di sua madre che gli diceva: “gli occhi mi ricordano i tuoi”. 

Era di nuovo in ritardo per andare a scuola.
Scese le scale di corsa facendo quattro gradini alla volta con lo zaino che oscillava pericolosamente.
Suo padre lo accolse in macchina con brusche e colorite espressioni. Nei pressi della scuola cominciò a correre per evitare di trovare il cancello chiuso, all’ingresso la bidella gli gettò uno sguardo di rimprovero al quale Alessandro ripose con un sorriso malizioso e sfacciato.
Trovò i suoi compagni sparsi e vocianti in aula poiché l’insegnante della prima ora era in ritardo. Gettò lo zaino in terra con aria soddisfatta mentre cercava nelle tasche dei pantaloni qualche moneta per comprare la colazione.
Arrivato al banco venne accolto dal sorriso caldo e radioso di Cinzia. I suoi occhi color nocciola sembravano ancora più grandi e pieni di dolcezza. Alessandro ascoltò i battiti accelerare mentre veniva travolto dal profumo intenso dei capelli di Lei, una delicatissima fragranza alla vaniglia.
Amava le sue pettinature semplici ed era incantato nell’osservare i suoi riccioli morbidi adagiati dietro le spalle.
L’espressione intontita catturò l’attenzione di Cinzia che gli rivolse un sorriso canzonatorio. Inforcò gli occhialini da lettura e preparò l’ennesimo gioco con il quale trascorrere parte della mattinata.
Alessandro era inquieto. Temeva che i suoi sentimenti fossero troppo evidenti.
Cinzia lo guardò sorridendo un paio di volte con la coda dell’occhio.
Alla fine appoggiò gli occhiali sul banco e con un’espressione interrogativa, terribilmente attraente agli occhi di Alessandro, domandò se aveva trovato il coraggio di chiedere a Valentina di uscire.
Recitò la risposta che si era preparato da settimane dicendo che non aveva chiesto nulla poiché sicuro di un rifiuto. Appena formulata la frase il viso di Cinzia cambiò espressione ed Alessandro lo notò subito.
Per un istante, sospeso ai margini del tempo, Cinzia fissò gli occhi di Alessandro e con un filo di voce disse “io ti avrei detto si”.
Mentre le parole vibravano sospese nell’aria, Cinzia abbassò gli occhi in modo repentino e con un gesto che sembrava un tutt’uno con lo sguardo, afferrò lo zaino da terra.
Alessandro la fermò posandogli la mano sulla spalla. Vedeva la nebbia del tempo dissiparsi lentamente davanti a suoi occhi ed al suo posto emergere il proprio futuro.
Indeciso e impaurito cercò gli occhi di Cinzia. Immerse lo sguardo nel suo e se né lasciò rapire per un tempo indefinito. Le si avvicinò con discrezione e con il cuore in tumulto, passò delicatamente la mano sul collo fin dietro la nuca.
Le labbra erano a pochi centimetri, entrambi sentivano il respiro dell’altro sulla pelle. Un respiro reso affannoso dall’emozione.
Alessandro posò delicatamente le labbra su quelle di Cinzia, raccolse le ultime energie e mormorò un delicato “ti amo” che andò a spegnersi in un bacio intenso, passionale e romantico.

La giornata era calda e luminosa.
Avevano trascorso il pomeriggio nel parco scherzando e ridendo. Alessandro aveva in mano il foglietto che l’uomo anziano gli aveva affidato il giorno prima.
Cominciò a leggere ad alta a voce poiché desiderava rendere partecipe Cinzia di quella magia.
“ Caro Alessandro se hai dato ascolto alle mie parole ora sei abbracciato alla nostra Cinzia”.
Fece una pausa e cercò lo sguardo di lei.
“ieri ho diradato le nebbie del tempo ed oggi sono testimone del vostro futuro ”.
Cinzia si passò la mano tra i capelli sorridendo.
“Il vostro futuro è una stupenda pagina bianca che potrete riempire con il vostro amore.
Finalmente potrete vivere la pienezza del vostro legame donandovi reciprocamente voi stessi.
 Il mio compito si esaurisce qui. La mia anima è pronta per intraprendere l’ultimo viaggio”
Alessandro ripose quel foglietto proveniente da un altro tempo e strinse l’amata in un tenero abbraccio. Poi si adagiò sulla panchina, divenuta ormai famigliare, con la testa di lei posata delicatamente sul petto. Era disorientato per quanto accaduto e per la straordinaria avventura di cui era stato protagonista. Era tornato chissà come dal futuro per donare a sé stesso e a Cinzia una seconda possibilità.
Ricordava la forza della sua stretta e la profondità del suo sguardo.
Si scoprì emozionato e commosso per quella figura esile e vulnerabile che per amore aveva sfidato le leggi della fisica. Commosso lo abbracciò con affetto e gratitudine, come se fosse li ancora per un istante. Sperò in cuor suo che la forza di quell’abbraccio fosse tale da sfidare e vincere a sua volta le leggi della fisica.

Alessandro era disteso in terra. Vedeva un giovane chino su di lui intento a praticargli la respirazione artificiale. Poco distante una donna, forse la compagna, teneva stretto un bambino che piangeva disperato. Il traghetto che doveva prendere era fermo sulla banchina e la sirena avvertiva i passeggeri di un ritardo nella partenza.
Alessandro guardò il cielo sopra di sé, plumbeo e umido. Avrebbe preferito andarsene nella bella stagione con il calore dei raggi del sole sulla pelle, ma anche così andava bene, pensò.
Andava bene perché era riuscito nell’impossibile. Si era regalato una seconda possibilità. Mentre la vita scivolava via dal suo corpo non sentiva freddo né paura perche sentiva che qualcuno a lui caro lo riscaldava con il caldo abbraccio dell’addio. 
 © riproduzione riservata
 © Gunnella Marco 2012

giovedì 21 marzo 2013

dall'occhio al cervello



Si guarda con gli occhi, ma si vede col cuore.
Una frase romantica che tutti conoscono, ma la giusta riformulazione sarebbe: si guarda con gli occhi, ma si vede col cervello.
L’occhio è un organo molto complesso che potremo sinteticamente dividere in tre zone.
La prima è la parte esterna, la cornea, il cristallino e l’iride che hanno il compito di ricevere i quanti di luce provenienti dall’esterno, questi impulsi fotochimici vengono poi elaborati dalla retina, la parte più interna del bulbo oculare che provvederà ad una prima riorganizzazione delle informazioni ricevute e alla loro trasformazioni in impulsi elettrici da inviare all’area del sistema nervoso centrale deputata alla vista tramite il nervo ottico.
Il cervello elaborerà questi impulsi in “immagini”. Provvederà a decodificare gli impulsi elettrici mostrandoci cosi il mondo che ci circonda.
Tuttavia  gli impulsi catturati dal sistema occhio renderebbero la nostra visione capovolta, rimpicciolita e bidimensionale.
Solo con la successiva elaborazione del cervello queste informazioni vengono riposizionate, colorate, ingrandite e rese tridimensionali, in altre parole è il cervello che ricostruisce su basi probabilistiche l’ambiente che ci circonda.
Probabilistiche in quanto le informazioni ricevute vengono “lavorate” dal cervello in modo da restituire alla nostra coscienza un’immagine comprensibile della “realtà”.
Questa elaborazione consente di dare profondità alla scena, di collocare un edificio più lontano rispetto ad un altro, di percepire il movimento i colori e cosi via, ma il cervello non elabora solo questo, il cervello riadatta le informazioni in base alle sue esperienze, alle cose già viste, alle cose che ha studiato, alla propria cultura e all’ambiente in cui vive.
Per questo persone diverse vedono cose diverse. Per questo in criminologia si considera la testimonianza oculare come una prova debole rispetto a quella scientifica. Perché il cervello, molto più spesso di quello che si immagina, presume, riempie e cancella informazioni.
Può sembrare incredibile, ma faccio due esempi.

1: abbiamo parlato del nervo ottico che trasferisce impulsi elettrici dalla retina al sistema nervoso centrale. Il punto in cui si collega con l’occhio e per noi un punto cieco. Una piccolissima frazione di retina priva di “coni” e “bastoncelli” .
Quella porzione di retina non trasmette informazioni, ragion per cui se guardassimo un foglio bianco dovremmo vedere due minuscoli punti neri, uno per occhio, eppure il foglio ci “apparirà” completamente bianco.
Il cervello avendo elaborato le informazioni ricevute come quelle di un foglio di carta bianca, automaticamente presumerà di trovare bianco anche in quei due punti ciechi.
C’è un interessante esperimento che mostra un rettangolo bianco con a sinistra un “x” nera e a destra un punto nero.
Fissando il disegno da circa trenta centimetri e focalizzando lo sguardo sulla “x” il punto nero scompare. Questo perché entra nel punto cieco della retina e il cervello “riempie”  questo punto con lo stesso colore di ciò che lo circonda, il bianco!

2: spesso ci capita di scambiare una sconosciuto per un amico o un famigliare.
Questo avviene in presenza di alcune caratteristiche comuni alle due persone, il cervello presume sia quella che normalmente vediamo e ci restituisce un immagine che in realtà non esiste.

Non tutta la retina è uguale, la fovea è la parte più densa di “coni” ed è quindi la zona più nitida della nostra vista ed il motivo per cui tendiamo naturalmente a spostare il viso e gli occhi per guardare un oggetto, perché tendiamo a portarlo nel suo raggio d’azione che è infinitesimale.
Inoltre quando guardiamo un oggetto, un panorama o un quadro l’occhio effettua due distinte operazioni, rapidi movimenti oculari che scansionano ciò che abbiamo davanti e di cui non serberemo ricordi ma che serviranno al cervello come punti di riferimento e le fissazioni, ciò quando ci fermiamo ad osservare un particolare e queste sono le informazioni che transitano per il nervo ottico, ed il motivo per cui due persone davanti allo stesso quadro possono ricordare particolari differenti.
Il quadro rimane sempre lo stesso, ma è il soggetto che cambia, sono le fissazioni, ciò questi punti che hanno attratto l’attenzione e su cui il nostro occhio si è soffermato, non sono casuali, ma sono il frutto del nostro “io”, della nostra istruzione, della nostra educazione dei nostri interessi e cosi via.
Questo ci porta alla questione principale, la realtà non è qualcosa di diviso rispetto a noi, non c’è oggetto e soggetto, non c’è un tavolo e un osservatore, ma le due cose si fondono insieme e interagiscono.
Niels Bohr, uno dei padri della fisica quantistica, diceva:
“l’albero che si trova nel mio giardino esiste solo quando io lo guardo”.

Un piccolo esperimento potrà chiarire meglio.
Guardate per un minuto la scrivania di un collega, un amico o un fratello per un minuto poi scattate una foto con il cellulare.
Provate a descrivere la scrivania e gli oggetti presenti in dimensione, colori e posizione. Poi confrontate quanto scritto con la foto scattata.
Il risultato sarà che avrete visto meno oggetti, che avrete confuso alcuni colori nonché distanze e dimensione tra gli stessi.
Gli oggetti mancanti dal vostro ricordo non sarebbero esistiti, in quanto non né avreste conservata coscienza, ma questo non li rende meno reali di quelli ricordati.
L’oggetto ricordato e quello non osservato “esistono” entrambi nel piano spaziale di riferimento, ma la differenza l’ha fatta il cervello attraverso il meccanismo delle fissazioni.
Potremo arrovellarci ore cercando di stabilire se un oggetto non ricordato ma immortalato dalla fotocamera del cellulare sia per questo meno reale del resto.

A questo punto è necessaria una precisazione.
Quando si dice “vedere con il cervello” non lo si deve considerare in modo letterale, in quanto non c’è, o perlomeno non è stata ancora individuata, una zona precisa deputata a ciò.
Per ora sappiamo che l’area interessata alla codificazione dei segnali elettrici provenienti dalla retina è situata nella struttura striata della corteccia celebrale occipitale, che a sua volta riceve informazioni pre-eleborate dal “nucleo genicolato laterale”.
Questa porzione del cervello è sostituita da strati neuronali sovrapposti, ognuno con distinte funzionalità che vengono espresse con degli indici che vanno da “V1” a “V5” (V = Vision).
In sintesi:
V1 = la sua funzione è di selezione distributiva delle informazioni ricevute.
V2 = la zona sensibile all’orientamento dei profili “ombra/luce”  e codifica la dimensione spaziale  delle forme statiche, consentendo di riprodurre le informazioni su un campo tridimensionale.
V3 =  la zona sensibile al movimento delle forme, codifica le differenze temporali di moto.
V4 = codifica i colori
V5 = sincronizza e assembla il lavoro delle aree precedenti, ultimo passaggio che trasforma gli originari impulsi elettrici provenienti dalla retina in percezione visiva organizzata, quella che noi consideriamo “realtà”.

Abbiamo parlato dei rapidi movimenti oculari che precedono e seguono le “fissazioni”, il loro nome scientifico è : “saccadi oculari”. Se ne compiono circa 150 mila al giorno e apparentemente sono involontarie e casuali, in realtà sono all’origine della rappresentazione visiva finale.
Il cervello con questi movimenti sincronizzati scansiona l’ambiente circostante, in quella che può essere definita come un operazione di “ricerca e confronto” con ciò che ha già visto o studiato.
Il cervello non è un hard disk, non conserva singoli file d’immagine, cosi quando “vediamo” una sedia il cervello la riconosce come tale confrontandola con centinaia o migliaia di oggetti-sedie visti fino a quel momento e interpreta in tal modo i segnali elettrici corrispondenti, riconosciamo l’oggetto come sedia perché sappiamo che oggetti con certe caratteristiche comuni sono “sedie”, ma questo esula dalla percezione visiva  in quanto tale, perché l’immagine viene rielaborata in base alle conoscenze del soggetto.
Un bambino, ad esempio, la prima volta che osserva una fiamma istintivamente allunga la mano, perché l’immagine che il cervello ricostruisce in sé per sé non aiuta il bambino a comprenderla, soltanto esaminandola e soltanto maturando una memoria della stessa potrà associare in futuro una fiamma a qualcosa di pericoloso che non va toccata con mano.

Il limite, sostanzialmente è questo, la percezione visiva non può essere dissociata col soggetto che la riceve, sono in continua e indissolubile correlazione ed per questo che si può affermare che la realtà è soggettiva.